Dalla Scala all’Opéra di Parigi, dalla Russia al Giappone, a 84 anni (e a mezzo secolo dai suoi lavori migliori) è ancora tra gli autori più frequentati dalle compagnie di balletto; e molto pubblico continua ad amare le sue storie danzate tra il frivolo e il drammatico, centrate su personaggi che sfruttano le star del momento
Riparlare di Roland Petit – ai lettori esperti di una rivista di danza – è perfino banale e un po’ imbarazzante. A “dirne bene” ci si sente ingenui; “dirne male”, è come dir male di Garibaldi.
Allora, il buon giornalista comincerà col ricordare che Roland Petit, nato nel 1924, fu l’enfant prodige del balletto francese nella rinascita dopo la guerra. Lasciato l’Opéra dove si era formato coi migliori maestri e sotto lo sguardo di Serge Lifar, fondò, da giovane coreografo-danzatore vivace e volitivo, compagnie di giovani artisti eccezionali; il suo Le Jeune Homme et la Mort, del 1946, su un’idea di Jean Cocteau (il ragazzo, con l’aiuto del suo pigmalione, Irène Lidova, “frequentava bene”) rivelò un vero genio di danzatore, Jean Babilée; e Carmen del 1947, un piccolo capolavoro, lanciò Zizi Jeanmaire, sua musa e compagna per la vita. Poi, una quantità di creazioni per compagnie proprie e altrui, un breve sogno americano col musical e col cinema (che l’avrebbe influenzato per sempre, non si sa quanto in bene), e ancora balletti in mezzo mondo (oltre centocinquanta, finora) su temi imponenti o frivoli, su musiche alte o volgari, spesso con pittori di gran nome come scenografi o sarti celebri come costumisti. Mon truc en plumes del 1961, per l’inimitabile Zizi, è un gioiello di vacuità effervescente; Notre Dame de Paris, del 1965, mette invece a servizio un monumento della letteratura francese, e segna la sua consacrazione all’Opéra come coreografo serio e drammatico, da lì in poi quasi “istituzionale” per la danza francese. Nel 1972 gli è stato affidato il Balletto Nazionale di Marsiglia, che ha diretto da padre-padrone e coreografo unico per 26 anni, in un profluvio di creazioni, spesso messe in valore dall’impiego di stelle “ospiti” (Makarova, Plisetskaya, Vassiliev, Baryshnykov, Nureyev, Fracci, Dupond, Ferri…) in ruoli abilmente centrati su di loro.
Da una decina d’anni è libero, abita formalmente a Ginevra con la sua Zizi, ma continua a riprendere o a creare balletti in molti teatri del mondo, dalla Scala di Milano all’Opéra di Parigi, al Bolshoi di Mosca, in Cina e in Giappone.
Detto questo, aggiuntavi qualche giusta lode, un giornale ha fatto il suo dovere, ma il critico e il suo non ingenuo lettore restano un po’ perplessi.
Al di là dell’ammirazione per un artista senza dubbio di gran talento, vitalità e fascino, che è stato tra i protagonisti del balletto europeo degli ultimi 60 anni, sarebbe infatti ora di chiedersi che senso abbia la presenza così assidua di Roland Petit nelle stagioni di alcune grandi teatri e compagnie, presenza in un certo senso sproporzionata rispetto a quella di altri autori della stessa generazione, più importanti sul piano propriamente coreografico. Non si capisce perché il pubblico europeo debba conoscere e ripassare regolarmente l’opera omnia di Roland Petit e ignorare quasi del tutto Jerome Robbins, forse il più grande coreografo del XX secolo dopo Balanchine; o un altro genio come Paul Taylor; per non dire di Merce Cunningham (che in realtà è poco praticabile dalle compagnie istituzionali); o non avere quasi idea del lavoro di Hans Van Manen, un vero coreografo che ha influenzato in modo essenziale il balletto moderno in Europa negli ultimi 40 anni (spero che nessuno sia tanto asino da sostenere che Roland Petit abbia marcato la coreografia del suo tempo, a parte qualche coreografo francese di secondo piano).
So la risposta: cose troppo difficili, il pubblico ama i balletti di Roland Petit, e con un’étoile famosa nel ruolo principale il successo è assicurato.
Per cominciare, si potrebbe dire che quello del “pubblico” è un falso concetto, buono a mascherare di necessità-virtù la pigrizia dei direttori artistici. Non c’è “il pubblico”, ci sono pubblici diversi, c’è un pubblico per l’Arte della Fuga di Bach e uno per Madonna, un pubblico per Cunningham e uno per Franco Miseria. Bisogna sapere a chi ci si vuol rivolgere; come persona interessata all’arte della danza, e come contribuente, credo che i grandi teatri che hanno una missione culturale e il denaro pubblico per svolgerla, debbano rivolgersi al primo, formandolo ed ampliandolo, e lasciare il secondo all’entertainment commerciale. Questo, in generale; è chiaro che l’opera di Roland Petit non sarà arte pura e sublime ma nemmeno intrattenimento volgare, se qualche volta l’ha sfiorato, altre ha creato spettacoli di un’eleganza e di una qualità teatrale innegabili.
Elisabetta Terabust, attuale direttrice del Balletto della Scala di Milano – la migliore che la Scala abbia avuto tra i tanti negli ultimi decenni, per quanto riguarda il lavoro artistico con la compagnia – a suo tempo danzatrice meravigliosa (che ho amato e ammirato particolarmente, se mi è permessa una nota personale), a lungo stella di Roland Petit di cui conosce bene lo stile e il mondo, ha fatto molto bene a proporre una serata con tre titoli storici e forti del coreografo, Le Jeune Homme et la Mort, Carmen e L’Arlésienne; ma le sarà difficile farci digerire, nella stagione entrante, Pink FloydBallet, creato a Marsiglia nel 1972 e parso già allora un pasticcio fumoso e modaiolo.
Allo stesso modo, l’Opéra di Parigi ha tutte le ragioni di tenere in repertorio Notre Dame de Paris, ma molte meno di rappresentare l’inutile recente Clavigo.
Certo, c’è un pubblico che si bea di piume e champagne (vezzo, va detto, che Petit si è lasciato ormai alle spalle), delle sue Ferri e dei suoi Bolle impegnati in amori, morti e vaghe e vacue ambiguità erotiche, in storie famose e drammatiche tratte dalla letteratura, “messe in danza” senza vero interesse per la danza stessa. Lui stesso lo ammette, magari con l’alzata di spalle seccata di chi sa ma non gl’interessa; formatosi alla danza classica all’Opéra e con grandi maestri, curioso sempre della danza moderna, fantasioso e inventivo anche nella danza, pur è evidente che l’invenzione coreografica in se stessa, il lavoro nella sua arte come quello dell’architetto o del musicista nella loro, non è la sua vocazione. I suoi balletti, come si suol dire, “astratti”, sono marginali nella sua opera, e talvolta di una banalità non degna di un coreografo del suo nome.
Un giorno Irène Lidova – grande personalità di animatrice della danza francese dal dopoguerra, sua “scopritrice” e sostenitrice appassionata – dopo una prima gli disse scherzosamente: “Bene, Roland, ma ora quando ci farai un vero balletto..?” Lui le tolse il saluto per sempre.
Questo tratto di carattere d’artista – l’egocentrismo animoso, il sentimento d’aver avuto molto (successo, denaro, piaceri, affermazione) ma ancora non abbastanza per i propri meriti/diritti, la rivalità astiosa con i colleghi (soprattutto con Béjart, sua spina nel fianco, pure francese e coetaneo e tanto più trionfante, che Petit chiamava “l’autre” – “quell’altro” – mentre Béjart non lo chiamava affatto…) – potrebbe restare nel privato e non riguardarci, e tuttavia fa luce su un lavoro artistico appassionato ma animato da un’ossessiva pretesa di successo.
In un suo libro di memorie e note (Roland Petit – j’ai dansé sur les flots – Grasset 1993), spiritoso e spregiudicato più di quei soliti libri da ex danzatore, ma come quelli fatto di aneddoti curiosi e di penose esibizioni di frequentazioni di celebrità estranee alla danza, senza una mezza idea interessante, e men che meno sulla coreografia, troviamo:
“L’intelligentsia di sinistra, quelli per i quali la cultura si scrive con una K, mi rimproverano di essere un artista mondano. Io rappresento ai loro occhi quello che loro chiamano “establishment”. Ma che cosa vuol dire, di preciso? Aver successo? Successo in che cosa? In un’opera che il pubblico apprezza? È da biasimare..?”
A parte l’idea bizzarra di una cultura di sinistra nel mondo della danza, che non ha ancora una bussola sulle proprie questioni di base, figurarsi in politica, il punto di vista di Petit è chiaro. E poi:
“L’allegria, le risa incontenibili, i pianti, i sospiri, i rimorsi, l’odio, la bontà, gli sguardi frivoli, la vendetta e l’amore, senza dimenticare la morte, si danno la mano per fare teatro…”
Ecco tutto Roland Petit. Ma era già nelle parole di Irène Lidova del 1952 (nel suo libro 17 visages de la danse française):
” Roland Petit non appartiene al mondo del balletto, è un artista a parte, che attinge la sua ispirazione da tutto ciò che l’arte teatrale ha di più attuale, di più inedito. Gioca d’azzardo col successo, ha orrore dei sentieri battuti, vuole ancora colpire e stupire, magari sprecando le sue qualità più preziose. Ma quando troverà il suo vero volto e capirà la serietà del suo compito, darà al balletto francese la sua autorevolezza e il suo talento caldo e vivo.”
Roland Petit aveva allora 28 anni. Oggi, dopo una così lunga carriera non ancora conclusa, forse ci si può chiedere ancora se quella speranza un po’ profetica si sia avverata fino in fondo.
Alfio Agostini
(BallettoOggi n°194 – Agosto 2008)